LA STORIA DELL'OLIVA ASCOLANA

 


La storia dell’ oliva ascolana è lunga.

Già nell’antichità le olive in salamoia (verdi e nere) rappresentavano un pasto ritenuto nutriente, tanto che i legionari romani se ne nutrivano e portavano sempre nelle loro bisacce un pugno di olive per i momenti più brutti.

Insieme alle focacce e al farro, le olive in salamoia rappresentavano il pasto dei soldati.

I ricchi cercavano però qualcosa di meglio e quindi si rivolgevano alle olive picene che Ascoli (capitale del Piceno) esportava a Roma.

La qualità fu apprezzata anche dai  monaci Benedettini-Olivetani, il Papa Sisto V che se le faceva mandare in Vaticano, Rossigni, Garibaldi, Puccini e tanti altri che, buone forchette, tra una nota di musica, un colpo di sciabola e una paterna benedizione, avevano persente che l’uomo non vive per mangiare, ma che il buon mangiare aiuta l’uomo a vivere.

 Ad ogni buon conto, fare l’oliva ripiena e fritta non è tanto facile. Bisogna curarla con una serie di accorgimenti che vanno dall’acqua seduta, cioè di pozzo e non di tubo; si deve cuocere nell’acqua forte che adesso viene realizzata con la soda ma un tempo veniva preparata in casa facendo passare, goccia a goccia, l’acqua attraverso strati di cenere (sali) e carboni (depurativo).

Quando poi l’oliva era “arrivata”, veniva posta in vasi di terracotta con acqua salata e finocchio bastardo. A questo punto la metà del lavoro era fatto, ma mancava il meglio giacché le olive dovevano essere ancora farcite e fritte.

Non è databile in maniera precisa la comparsa delle olive ripiene all’ascolana anche se la tradizione vuole che esse risalgano all’Ottocento.

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